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L'Annunciazione di Simone Martini, un vertice della scuola senese

Considerata uno dei massimi capolavori della scuola senese, l’Annunciazione di Simone Martini, eseguita assieme al cognato Lippo Memmi e oggi conservata agli Uffizi, rappresentò una svolta nel suo stile.

 

Il 10 gennaio del 1799 l’Annunciazione di Simone Martini e Lippo Memmi lasciava il piccolo oratorio di Sant’Ansano in Castelvecchio a Siena, noto anche come la chiesa delle Carceri di Sant’Ansano, e partiva alla volta di Firenze, dove avrebbe raggiunto gli Uffizi per ordine del granduca Ferdinando III d’Asburgo-Lorena, che ai senesi mandò in cambio due opere di Luca Giordano da poco acquistate dagli Uffizi, un Cristo davanti a Pilato e un Cristo deposto oggi custoditi al Museo dell’Opera del Duomo di Siena. Lo storico dell’arte Enzo Carli, grande specialista di cose senesi, non usò mezzi termini per bollare la volontà del lorenese: “fu [...] fatta depredare dal granduca di Toscana”. E da allora è agli Uffizi che il pubblico può ammirare l’Annunciazione, uno dei vertici della scuola senese del Trecento, capolavoro su cui son state scritte pagine e libri: si deve allo stesso Carli il merito d’aver richiamato l’attenzione su quella che è, a tutti gli effetti, la più antica “referenza critica” (così lo studioso) che si conosca dell’Annunciazione. È un passo delle Prediche volgari di san Bernardino da Siena, i sermoni che il santo tenne in piazza del Campo a Siena nell’estate del 1427, 45 distribuiti lungo 45 giorni, dal 15 agosto di quell’anno: “Avete voi veduta quella Annunziata che è al duomo a l’altare di santo Sano, allato a la sagrestia? Per certo, quello mi pare il più bell’atto, il più reverente e ’l più vergognoso che vedesse mai più in Annunziata. Vedi ch’ella non mira l’angiolo; anco sta con un atto quasi pauroso. Ella sapeva bene ch’elli era angiolo. Che bisognava ch’ella si turbasse? Che arebbe fatto se fusse stato uno uomo? Pigliane essempio, fanciulla, di quello che tu debbi fare tu”.

Carli vedeva nel passaggio della predica di san Bernardino una sorta di testo critico ante litteram poiché, a suo avviso, il santo aveva “colto con mirabile acutezza quel misto di reverenza, pudore e timore da cui vien colta la Vergine dinanzi alla celeste visita e che costituisce un motivo non secondario del fascino che promana dalla tavola martiniana”. Naturalmente l’interpretazione di san Bernardino, rilevava lo storico dell’arte, era condizionata dal suo sentimento religioso (e anche morale, dal momento che la ritrosia della Vergine che s’ammira nel capolavoro di Simone Martini e Lippo Memmi veniva assunta a paradigma per le giovani donne), ma questo sentimento non doveva essere così distante dalla spiritualità dell’artista, così come doveva trovare larga accoglienza presso i senesi che, a partire dal 1333, per diversi secoli avrebbero potuto vedere l’opera sull’altare di Sant’Ansano, patrono della città, all’interno della Cattedrale di Siena. Simone Martini (Siena, 1284 - Avignone, 1344) e suo cognato Lippo Memmi (Siena, anni Ottanta del XIII secolo - 1356) avevano dipinto l’opera proprio per i fedeli che si recavano ad ascoltare la messa nel duomo senese, e si erano anche firmati sulla cornice intagliata da Paolo di Camporegio e dorata dallo stesso Lippo (il resto della carpenteria che vediamo oggi è invece ottocentesco): “SYMON MARTINI ET LIPPVS MEMMI DE SENIS ME PINXERVNT ANNO DOMINI MCCCXXXIII”. Non sappiamo tuttavia chi si sia occupato di che cosa, benché su basi stilistiche sia possibile riconoscere a Simone la scena dell’Annunciazione, e a Lippo i tondi coi profeti (Geremia, Ezechiele, Isaia e Daniele) e i due santi che compaiono negli scomparti laterali, Ansano e Margherita, entrambi senesi (sant’Ansano è il patrono della città toscana). L’opera venne poi trasferita sul finire del Seicento nella chiesa di Sant’Ansano in Castelvecchio, dov’è ricordata in un inventario del 1741, che la cita vicino alla porta d’ingresso.

Secondo lo studioso Pietro Torriti è esercizio futile interrogarsi sulle porzioni da attribuire alle diverse mani, essenzialmente per una ragione: “siamo [...] di fronte al più celebrato capolavoro di Simone Martini”, ragione per la quale “sembra sterile ogni più insistente indagine attributiva”. La regia complessiva del dipinto, del resto, non può che essere ascritta all’estro di cui Simone Martini aveva già offerto numerose prove in precedenza. Chi vede per la prima volta quest’opera (ma l’effetto torna anche alle visioni successive, anche quando si è acquisita una certa familiarità con questo dipinto) rimane impressionato dalla fulgidezza dell’oro che dona alla scena una luminosità mistica e preziosa allo stesso tempo. Tutto il fondo è dorato, ed è da un lato impreziosito dalle delicatissime punzonature delle aureole, con le quali Simone Martini ha inciso l’oro steso sulla tavola con abilità da orafo, e dall’altro esaltato dai dettagli anch’essi dorati delle vesti in broccato, dal vaso di gigli al centro della scena, e anche dalla pastiglia con cui l’artista ha messo in rilievo la frase che l’arcangelo Gabriele rivolge alla Vergine Maria in segno di saluto. La vediamo uscire dalla bocca aperta dell’angelo, come una sorta di fumetto trecentesco: “Ave gratia plena Dominus tecum”, ovvero “Ave [Maria], piena di grazia, il Signore è con te”.

 

La scena ha luogo su di un pavimento dipinto a imitare un coloratissimo marmo brecciato. I due personaggi sono divisi dal vaso che reca altissimi gigli, allusione simbolica alla purezza e alla castità di Maria. L’arcangelo, vestito d’una lunga tunica bianca di broccato con ricami dorati e con un manto a quadri in tessuto scozzese (nel Trecento a Siena venivano già importate stoffe provenienti da quelle terre) annodato sul collo, è appena arrivato e si è inginocchiato in segno di deferenza. Le ali, descritte minuziosamente e simili a quelle d’un uccello rapace, sono ancora spiegate, con le penne rivolte verso l’alto, mentre il mantello sta ancora svolazzando: il suo viaggio si è dunque concluso da pochi istanti. La sua chioma bionda è tenuta ferma da un nastrino dorato, reca un diadema con gemme preziose ed è cinta di ramoscelli d’ulivo, la stessa pianta che tiene con la mano sinistra e con la quale sta omaggiando la Madonna: è simbolo della pace che Dio sigla con l’umanità dopo il peccato originale (la dottrina cattolica ritiene infatti la Vergine concepita senza il peccato originale). Le mani compiono un gesto lezioso, sofisticato e acutamente bilanciato, peraltro riflesso nella posizione, pressoché identica, delle mani della Vergine: una, quella che tiene con estrema delicatezza l’ulivo (con il pollice, l’indice e il medio), è rivolta verso il basso, mentre l’altra, quasi in perfetta simmetria, si alza invece a indicare il cielo, come a render palese chi sia il responsabile dell’invio del messo celeste. Maria siede su di uno scranno decorato con eleganti motivi geometrici, coperto con un drappo anch’esso broccato. Si ritrae timida, cerca di chiudere il manto blu (il colore simboleggia la sua dimensione divina, al contrario della veste rossa che allude invece alla terra) dal bordo e dalle maniche evidenziati con preziosi ricami dorati. Sulla spalla destra brilla la stella che spesso si vede raffigurata sul manto della Vergine, a rammentare l’attributo di “Stella maris” (“stella del mare”) che gli veniva rivolto, poiché, secondo san Bernardo di Chiaravalle, come per i naviganti così per i fedeli la Vergine è la stella che indica la rotta da seguire. La stella era inoltre ulteriore simbolo di purezza (si riteneva che le stelle fossero corpi celesti incorrotti e senza macchie). E come spesso accade nelle scene dell’Annunciazione, la Madonna è appena stata interrotta nella sua lettura: tiene infatti ancora il segno con il dito (il pollice, in questo caso) nel libro. La sua posa (è colta nell’atto di ritrarsi: una splendida invenzione martiniana che, come si vedrà, avrà largo successo) e la sua espressione lasciano trasparire una certa severità altera ma anche un certo timore per l’inattesa apparizione del messaggero celeste: lui invece la guarda con occhi più gentili, come a dirle che non ha niente da temere. In alto, infine, ammiriamo la colomba dello Spirito Santo che appare nel cielo in un disco dorato, circondato da otto cherubini.

Mai prima dell’Annunciazione di Simone Martini e Lippo Memmi l’arte senese, la più raffinata dell’Italia del tempo, era giunta a simili livelli di quasi astratta sofisticatezza, di mistica eleganza, di trascendentale soavità. Il fondo, completamente dorato, fa apparire la scena quasi come un’apparizione, in uno spazio astratto, nonostante il solidissimo vaso, coi fiori che si muovono in tutte le direzioni, contribuisca a dare il senso della profondità (ancor più del trono eseguito con prospettiva empirica). “L’Annunciazione”, ha scritto Marco Pierini, “segna una svolta decisa nell’evoluzione dello stile di Simone Martini in direzione di un’estrema astrazione formale, di un’elegante e sinuosa linearità, di un ripensamento del concetto di spazio, non più apparecchiato secondo principi di derivazione giottesca, ma come compresso sulla superficie e solo appena suggerito dalle posture delle esili, immateriali figure dell’angelo e della Vergine e dalla collocazione degli oggetti: il trono e il bellissimo vaso di gigli”. L’arrivo dell’angelo suggerisce equilibrio e leggerezza, nonostante il contrasto tra la massa verticale delle ali e lo svolazzare ghiribizzoso del manto. Le proporzioni allungate dei due personaggi suggeriscono un senso d’aristocratica distanza. I bordi delle vesti, dall’andamento sinuoso e irregolare, nel loro marcato linearismo descrivono falcate irrealistiche, pieghe che sfidano la nostra percezione, volute che, a mo’ di leggiadri arabeschi, fanno quasi danzare i tessuti e rendono impalpabili, eterei i corpi dei due protagonisti. La luce viene esaltata anche dalla singolare tecnica di Simone Martini, che ha dapprima steso la foglia oro sulla preparazione, per poi aggiungere colore e lasciare in vista le dorature (quelle, per esempio, dei ricami damascati, o della stola dell’angelo, o del suo manto), o lavorare in sottrazione col bulino e il cesello per eseguire le punzonature, donando dunque rilievo alla superficie. Si nota anche un certo dinamismo: l’angelo appare in movimento, alla fine del suo volo, mentre la Vergine è in torsione, e ci pare quasi di vederla mentre si scherma, muovendo all’improvviso le braccia per cercare di celare alla bell’e meglio il suo imbarazzo. Occorre poi notare il contrasto tra i colori delle due figure: toni chiari per l’angelo, a indicare la sua totale appartenenza alla sfera celeste, contro la massa blu notte della Vergine, a dar conto della corporeità terrena della sua figura.

Quali i presupposti di questa decisa svolta nello stile di Simone Martini? È necessario tenere presente che nella Toscana del primo Trecento ebbe una considerevole diffusione il gotico francese: tavole, miniature, capolavori d’oreficeria ebbero un certo impatto soprattutto a Siena dove Simone Martini risultò, ha scritto Max Seidel, “l’artista che più di chiunque altro si è intensamente e variamente confrontato con questi modelli”, palesando una vastità d’interessi in grado di spaziare “dalle invenzioni formali sotto il segno della legittimazione del dominio angioino e della città-stato senese, alla riproduzione dell’ultima moda parigina in fatto di gioielli, fino alla replica di capolavori dell’oreficeria religiosa utilizzati anche come modelli per gli orafi di Siena”. A titolo esemplificativo si potrebbe indicare un’Annunciazione del miniaturista francese Jean Pucelle (Parigi, 1300 - 1355), tratta dal Libro d’Ore di Jeanne d’Evreux, ricco codice miniato conservato al Metropolitan di New York, come esempio delle tendenze che ispirarono Simone Martini, mentre per le elaborate oreficerie si potrebbe invece chiamare in causa un cercle de tête conservato al Louvre, simile al diadema indossato dall’angelo. Ci sono poi dettagli che potrebbero essere radicati in precisi precedenti iconografici: il gesto della Madonna che si chiude il manto, per esempio, richiama quello che si nota in una tavoletta di Guido da Siena conservata a Princeton, mentre la mano che tiene il segno nel libro ricorda quella dell’annunciata di Duccio di Buoninsegna nella tavola oggi alla National Gallery di Londra.

 

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